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Eternità non illusoria nella pittura di Beatrice Borroni

L’indubbio fascino che i quadri di Beatrice Borroni esercitano su chi li guarda mi induce a non sottolinearne questo aspetto, a non dimostrarne l’esistenza né le origini. Basta guardarli per rendersi conto di quanti e quali elementi concorrano a creare atmosfere affascinanti: che le donne siano immerse in acqua o sospese tra i rami di un albero o portino un turbante sui capelli o mostrino solo i volti appena intravisti tra fessure di muri e cornici, o siano colte nell’esuberanza del corpo reso tale da una prospettiva artatamente capovolta, fasciato a sua volta da strisce azzurre di cielo, c’è in ogni immagine un realismo surreale, quasi metafisico, che le rende umanamente vive: ammirate e desiderabili agli occhi dei fruitori, modello di ammirazione, imitazione e immedesimazione agli occhi delle fruitrici. Credo che nessuno resti escluso dal fascino di questo mondo che, pur se tutto al femminile nei soggetti, racchiude dentro di sé l’intero sentire, maschile o femminile che sia.

E in realtà, guardando i quadri di Beatrice difficilmente riusciamo a evitare la sensazione che ci sia anche un uomo, nascosto fuori dalla vista, che alita sulla scena il proprio sentire maschile, che esalta, con la carezza del suo sguardo, la bellezza femminile. E come potrebbe essere diversamente, quando si fa arte, quando si esprime liricamente l’essere di una donna?

Ovviamente, esprimere l’essere non vuol dire asessuarsi, porsi al di là delle proprie caratteristiche, quanto piuttosto espandersi a dimensioni che non trovano confini se non nell’umano.

Qualcuno ha scambiato questo dipingere solo e soltanto donne per una esternazione dell’ego dell’autrice, equivalente a una sorta di autocelebrazione. Eppure, tra le opere di Beatrice, non esiste un suo autoritratto, addirittura non esiste un seppur minimo accenno che richiami alla memoria, fosse pure nel titolo, qualcosa di autoreferente. Il che non vuol dire che Beatrice sia il chirurgo che, dopo aver sezionato un corpo lo ricompone con asettica freddezza in un tutto esteticamente armonico, come fosse tutt’altro da sé, anzi è proprio vero il contrario: come in tutti i processi di creazione, l’artefice non può che stare dentro il suo gesto di creazione.

Ma esistono diversi modi per l’artista di stare dentro alla propria opera: ci sta dentro perché è un puro atto di esternalizzazione di se stesso o ci sta dentro perché vi si ritrova, ne condivide le ansie, le gioie, i dolori, l’esistenza tutta. Ecco il segreto del fascino dei quadri di Beatrice: parlare dell’altro (delle altre), raccontare i loro limiti, le debolezze, i desideri, le fantasie i sogni e la bellezza. Nei quadri di Beatrice ritroviamo le amiche, le donne incontrate occasionalmente, durante una festa, dal parrucchiere, per strada. E ogni incontro, ogni sguardo che Beatrice volge ad esse, penetra nel loro animo, nel loro intimo, ne coglie l’essenza ultima di donna.

Ma se fosse soltanto uno sguardo tutto al femminile, c’è da chiedersi dove stia quell’uomo che guarda, che alita il suo pensiero all’interno del quadro.

Beatrice parla poco della propria pittura, dei processi che la portano alla realizzazione dei suoi quadri. Ma c’è una frase, quasi insignificante per chi se la lascia sfuggire, che dichiara quanto di sguardo maschile esista nelle sue donne: “nei miei quadri, dice Beatrice, c’è tutto il ‘400”. Se si considera che nel ‘400 a nessuna donna era permesso non soltanto di dipingere ma di frequentare un qualsiasi apprendistato nelle botteghe d’arte o artigiane (ad eccezione di Caterina de’ Vigri, 1413-1463, monaca presso il monastero del Corpus Domini di Bologna, poi divenuta santa, che si dedicherà ai soggetti religiosi ) si capisce bene che i modelli di tutta la produzione artistica di Beatrice si riferiscono a modelli suggeriti e di fatto imposti dagli uomini alla storia. C’è in essi, e non può essere diversamente, lo sguardo e l’animo dell’uomo rinascimentale.

Ma con quale sguardo gli artisti del quattrocento hanno raffigurato la donna? Vuol dire forse che nella pittura di Beatrice ci sta il fiato dell’uomo su una donna di fatto umiliata dalle limitazioni che allora, come ancora oggi, le vengono imposte?

Non mi riferisco ovviamente al profilo della donna così come i moralisti dell’epoca la vollero, ma a quello artistico che, nell’anelito rivoluzionario proprio dell’Arte, forza i limiti imposti dalla società, allora prevalentemente religiosa, e ci presenta una donna esaltata nella sua spirituale bellezza e forza morale. E proprio per esaltarne questa particolare bellezza gli artisti ne esaltano la sua materialità (che di quella bellezza è tramite) attraverso la rappresentazione di caratteristiche idealizzate e irraggiungibili, tanto che Raffaello, in una lettera all’ amico Baldassarre Castiglione dichiara che “per dipingere una bella donna, avrei dovuto vedere diverse belle donne ...” . Così anche il Botticelli, che più dichiaratamente propende a ribadire la tensione dell’amore naturale verso i corpi, senza limitare il potere fantastico di eros.

La carnalità delle donne borroniane nell’apparente perfezione delle loro forme, nella concretezza non illusoria della loro fisicità, esalta l’immaginazione del maschio, le rende sogno desiderato.

Ma qui si ferma il fiato dell’uomo nei dipinti di Beatrice.

Perché proprio quella perfezione, che volutamente abbiamo definito apparente, viene permeata e sconvolta dalla consapevolezza che Beatrice ha della donna, della sua vicenda, della sua collocazione nel reale, sia sotto il profilo strettamente fisico sia sotto quello psicologico.

Le donne di Beatrice, nel movimento dei corpi come nelle loro posture, nelle espressioni dei volti, nella luce degli sguardi, rivelano qualcosa che trascende la mera fisicità e che ci mette a contatto con una sfera di significati ben più profondi e complessi. I ritratti delle sue donne infatti non sono bloccati in una istantanea fotografica ma esprimono, nell’introspezione profonda degli sguardi e dei gesti, un tempo lungo, meditativo, che esprime tutta la pienezza del loro essere.

Il processo attraverso cui l’autrice passa per arrivare alla rappresentazione del lato più nascosto della femminilità non è di tipo astrattivo-concettuale, perché Beatrice non costruisce il modello ideale della figura femminile, ma raffigura il giusto equilibrio tra l’exemplar, ossia il modello da ritrarre, e l’ingenium, l’intuizione che dà accesso a una conoscenza più profonda di quella del dato fenomenico. Il modo di dipingere di Beatrice implica sicuramente un difficile equilibrio tra la fedeltà alla fisionomia reale e la sua elevazione a immagine più universale (si guardi il dipinto Irene, ritratto della cugina della pittrice: l’abito che indossa, l’ambiente in cui è inserito, concorrono ad evidenziare in che misura il modello si incarna nella ragazza ritratta).

Anche lo spazio, in cui la figura della donna è sempre in primo piano e ne occupa la parte più importante, è elemento significante: in quasi tutte le ambientazioni, esso è privo di riferimenti a luoghi concreti, identificabili e riconoscibili tramite strutture architettoniche, che siano stanze, fiumi, acque serene di piccoli laghi, superfici di specchi. E’ come se i corpi fossero immersi in ambienti che concorrono a celebrare i diversi aspetti della femminilità. Fiori, stoffe, acque trasparenti e poi finestre, piccole o grandi, fanno da sfondo alle vicende che lo spettatore incantato sente palpitare intorno a quei corpi, ne celebrano la bellezza con la loro armonia.

Un mondo ideale, allora che contraddice quanto sin qui detto, che relega ancora una volta la donna in quella spiritualità quattrocentesca?

Significative, per rispondere alla domanda, sono proprio le dimensioni delle finestre da cui Beatrice, in alcuni quadri, fa comparire i volti delle donne. Dimensioni che spesso riducono le finestre a feritoie in non ben definite pareti che separano e nascondono, come prigioni visibili e concrete, spesse e rigide, la donna dalla realtà esterna. Simboli e contenuti di questa realtà sono fiori, uccelli, frutta o semplicemente un raggio di luce che attraggono ma che si mantengono distanti, irraggiungibili. Da queste feritoie le donne si affacciano, quasi forzandone le dimensioni, per denunciare la loro assoluta necessità di dialogare costantemente con il mondo, essendo la realtà circostante raffigurata come essenzialità dell’essere, o perché questo è teso verso di essa o perché quella è lontana ma non assente.

Non si ceda tuttavia alla tentazione di valutare il mondo pittorico di Beatrice come drammatico. Non è mediante la rappresentazione della violenza né tanto meno attraverso la deformazione espressiva che Beatrice proietta in noi la sua visione. Drammaticità e serenità sono due definizioni che non si addicono alla tensione emotiva delle figure né allo spazio in cui vivono, perché tutti gli elementi che compongono le raffigurazioni pittoriche di Beatrice, provengono dal reale, osservato e fissato da una sensibilità minuziosa e attenta a tutti i risvolti psicologici in esso contenuti. Un mondo che, molto simile al nostro, sappiamo non esistere, che non c’è, che non c’è stato e non ci sarà mai, eppure realisticamente visibile, in cui ci ritroviamo dentro e dal quale sentiamo accrescere il nostro senso di vitalità. Uno spazio mentale, una sorta di eternità non illusoria, né tanto meno illusionistica, in cui niente deperisce e in cui i corpi rimangono intatti, mentre vibrano i colori e le anime che dall’interno di essi nascono e si rivelano.

MARCELLO COMITINI, link, 2014

Particolare da CANE (2009)